CAMBIAMENTO DEL CONTESTO FAMILIARE
Se i compiti evolutivi sono da sempre gli stessi, quello che oggi è cambiato è il contesto.
Il contesto sociale, certo, ma soprattutto quello familiare.
Riprendendo il pensiero di autori come Pietropolli Charmet e Matteo Lancini, possiamo affermare che vi è stato un progressivo passaggio dalla famiglia tradizionale, etica e normativa, alla famiglia degli affetti o famiglia relazionale.
Sono diversi i valori di riferimento, lo stile di vita, la concezione stessa del bambino. E soprattutto è avvenuta una sorprendente metamorfosi delle mamme e dei papà; metamorfosi che ha modificato profondamente il clima affettivo e relazionale in cui nascono, crescono e si formano i bambini, i preadolescenti, gli adolescenti. E così oggi infanzia e adolescenza (e le problematiche ad esse connesse) hanno assunto dei caratteri propri. Completamente nuovi.
LA FAMIGLIA NORMATIVA DEL PASSATO
Nel passato si arrivava all’adolescenza dopo un’infanzia governata dalla famiglia normativa tradizionale. Le madri e i padri si suddividevano i compiti in modo inflessibile: le mamme accudivano e i padri sgridavano, davano regole. La concezione dell’infanzia era altrettanto rigida e rigorosa. Il mito affettivo prevalente (ovvero l’insieme delle rappresentazioni e dei vissuti più diffusi) era caratterizzato dall’immagine del bambino come eccessivamente istintuale, abitato da pulsioni, bisogni e desideri eccessivi e dirompenti che dovevano essere dominati e frenati, nel rispetto della buona educazione e delle regole della società. Il modello educativo aveva come obiettivo quello di proteggere il bambino dalla tentazione di lasciarsi dominare dalla propria natura pulsionale; convinti che i suoi impulsi naturali l’avrebbero condotto sulla strada del “peccato” e dell’incompatibilità con le regole familiari e sociali. Erano perciò inevitabili i castighi che dissuadessero da pratiche e comportamenti proibiti. I castighi dovevano poter suscitare pentimento e cambiamento, dal seguire la propria indole a seguire pratiche suggerite dalla società.
Locke, filosofo inglese della seconda metà del ‘600, concepiva la mente del bambino come una “tabula rasa” su cui poter incidere qualsiasi tipo di informazione ed educazione. Per questa teoria, all’origine della vita del bambino e nella sua mente non c’erano contenuti o idee innate. Solo l’esperienza avrebbe arricchito e riempito l’individuo di nozioni ed inclinazioni.
Freud, il padre della psicoanalisi, definiva il bambino “perverso polimorfo”. Questo per descrivere come fossero presenti, all’inizio dell’esistenza umana, necessità primarie, primitive, autoreferenziali, che non potevano affatto tollerare l’attesa e la frustrazione.
L’obiettivo educativo più importante era la trasmissione di valori e principi giusti; ritenuti tali dall’alto del mondo degli adulti, dall’intera comunità sociale che li condivideva in modo unitario e compatto. Il principale valore dell’infanzia era dunque l’obbedienza. La punizione e il castigo, la privazione e la frustrazione, rappresentavano gli strumenti educativi privilegiati.
Nella mente dei genitori della famiglia normativa del passato c’era il “tu devi ubbidire” e si ottenevano così i “figli del Super-Io”, l’istanza psichica che interiorizza i valori e i divieti e che governa il senso di colpa. Così si veniva a determinare il cosiddetto adolescente edipico, ossia un ragazzo che doveva crescere per opposizione alle norme e agli adulti di riferimento.
CAMBIAMENTI CULTURALI DELLA CONCEZIONE DEL BAMBINO
Le ricerche e le teorie della psicologia evolutiva hanno dato vita a posizioni differenti sulla natura degli esseri umani, in particolare sulla mente dei bambini. La concezione della “tabula rasa” ha ceduto il posto a quella della “mente relazionale”. Oggi il bambino è considerato dotato di competenze relazionali fin dalla nascita. Già dai primi istanti di vita il cucciolo cerca la relazione e ne è capace. Il legame con l’altro sarebbe quindi un bisogno primario, al pari del bisogno di cibo e di acqua. Già dai primi mesi di vita, il neonato si rapporta attivamente alla realtà. Attraverso i primi contatti con la madre prende vita un emergente senso di sé e della propria identità. Il Sé e l’identità sarebbero dunque istanze psichiche molto precoci. Questa concezione ha delle ricadute importantissime da ogni punto di vista, non solo psicologico: si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale e sociale. Il bambino è una piccola persona a tutti gli effetti e la sua natura è buona. Oggi ci sembra normale, ma non è stato sempre così. Il ruolo materno e paterno hanno dovuto riadattarsi a questo nuovo presupposto e si è iniziato a guardare al bambino con occhi diversi: un soggetto capace di farsi amare fin da subito, bisognoso di cure e attenzioni amorevoli, competente e in grado di comunicare le proprie intenzioni e la propria indole. Meravigliosa, speciale e preziosa. Il bambino, innocente e incontaminato, ha radicalmente ragione. Ed ha il diritto di essere tutelato dagli attacchi che la cultura potrebbe sferrare alle sue ragioni originarie e legittime, confondendolo e inducendolo in errore. Il bambino non è più un “perverso polimorfo”, ma il “figlio adorato” della famiglia affettiva. Il figlio, scelto e desiderato, completa la propria realizzazione personale sia per la donna che per l’uomo. Entrambi diventano genitori sempre più in là nel tempo: dopo anni dedicati alla realizzazione di altri aspetti di sé, il loro progetto comune diventa quello di mettere al mondo un bambino che sia prima di tutto felice.
LA FAMIGLIA AFFETTIVA
Da queste premesse prende origine il nuovo sistema educativo basato sulla comprensione e sull’identificazione sulle ragioni dei figli, talenti naturali che hanno bisogno di essere lasciati liberi di esprimersi, che non vanno costretti all’obbedienza, ma vanno educati con la ragionevolezza e la comprensione. Al “tu devi ubbidire” si sostituisce il “tu devi capire”. La spiegazione delle ragioni dell’intervento educativo è una caratteristica imprescindibile, perché ha la funzione di scongiurare il rischio di rompere il legame a causa dei conflitti. L’aspetto più importante di questa relazione educativa e affettiva è la felicità del figlio. Nell’ottica educativa contemporanea, gli strumenti più utilizzati sono diventati la vicinanza e la relazione, in un assetto che vede sempre più spesso i genitori indossare i panni dei confidenti, dei consulenti, e degli sponsor evolutivi dei propri figli, con ricadute significative sulla loro crescita. Il genitore, dunque, non è più il rappresentante della legge e dei valori che ha il compito di aiutare il figlio a diventare soggetto etico. Il genitore è il rappresentante del diritto del bambino innocente a rimanere tale e a sviluppare la propria competenza e indole naturale, delle quali deve imparare a diventare custode e tutore. Questa condizione è accompagnata da numerosi vantaggi, ma purtroppo anche da spiacevoli svantaggi.
Il cucciolo buono, che cerca la sua mamma e il suo papà e si prepara a fare il suo debutto nella società dei bambini che lo aspettano, diventerà un adolescente particolare.
ADOLESCENZA
È questo nuovo quadro familiare e sociale che ha prodotto una tipologia di adolescente che non è più spiegabile e comprensibile in termini esclusivamente edipici, ma, piuttosto, meglio interpretabile in termini narcisistici.
Oggi la trasgressione non esiste più, gli adolescenti non sono più attanagliati dal sentimento di colpa, ma sono vittime di un altro sentimento, forse ancora più profondo e più doloroso: la vergogna. Oggi si cresce per delusione. L’area in cui sembrano maggiormente far fatica gli adolescenti di oggi riguarda infatti l’ambito della definizione di sé e, nello specifico, la tolleranza delle frustrazioni derivanti dal dover far fronte ai fallimenti fisiologici del percorso di crescita. Un adolescente arriva alle soglie della pubertà avendo sperimentato bassissime quote di dolore mentale, e avendo sviluppato modestissime capacità di tollerarlo. La riduzione drastica di frustrazioni e ferite narcisistiche nell’infanzia contribuisce a rendere i ragazzi particolarmente sensibili e fragili nei confronti delle delusioni e delle privazioni. Il bisogno di essere rispecchiati, riconosciuti, ammirati e valorizzati permane dunque in adolescenza. I giovani affrontano la crescita convinti che il Sé sia decisamente più importante dell’altro, e che la possibilità di esprimerlo e valorizzarlo rappresenti un’adeguata modalità per crescere, senza tradire gli insegnamenti dei propri genitori. La loro ricerca di rispecchiamento, in adolescenza, si rivolge prevalentemente ai coetanei. Ed è così che sono facilmente esposti alla mortificazione derivante dal divario tra le aspettative di buona riuscita e di successo sociale e la reale risposta che ne ottengono.
In uno scenario del genere, i giovani vivono il disagio della crescita con la paura del fallimento, di deludere aspettative e investimenti ideali costituitisi spesso nell’età infantile, quando si è sempre «fenomeni», «bravissimi», candidati al Pallone d’Oro o al titolo di Miss. Se il bambino ha un’infanzia ricca di aspettative ideali, una famiglia affettiva che lo invita a esprimersi, lo sostiene nelle amicizie e lo segue in tante attività, quando entrerà nell’adolescenza il nodo critico starà nel conflitto tra le aspettative ideali (molto elevate) sviluppate nell’infanzia e il dato di realtà, in pratica quello che sente di essere diventato, le sue reali capacità. Il conflitto non è più tra norma, Super-io e Io, ma tra ideali dell’Io troppo elevati e dati di realtà impietosamente poco appaganti.
Il passaggio dall’onnipotente corpo dell’infanzia a quello puberale è raramente indolore e costringe l’adolescente a una continua presa di contatto con cambiamenti, novità e limiti da integrare nell’immagine di sé in divenire.
Un’operazione complessa, in cui il nuovo corpo e il Sé possono apparire particolarmente deludenti, e talmente diversi dal passato e dalle proprie e altrui aspettative, da poter diventare bersaglio e portavoce della sofferenza della crescita. Il nuovo corpo può essere affamato, ferito o ferocemente attaccato attraverso il tentativo di farlo sparire definitivamente dalle scene.
Sorprende come, da una famiglia così affettiva, durante l’infanzia possano svilupparsi problematiche adolescenziali tanto difficili: oggi sempre più spesso accade che, proprio quando il giovane deve nascere socialmente, capita qualcosa che lo fa ritirare, nascondere. Un suicidio sociale proprio nel momento in cui si dovrebbe nascere socialmente.
È evidente che esiste un’emergenza educativa. Abbiamo “adultizzato i bambini e infantilizzato gli adolescenti”, esagerando con i “sì” per favorire lo sviluppo della creatività e del talento, buttando poi la palla in corner con i “no”, davanti alle inquietudini dell’adolescenza. Questa precocizzazione, adultizzazione dell’infanzia a cui segue un’infantilizzazione dell’adolescenza porta una serie di conseguenze negative.
Questo sta accadendo perché gli adulti utilizzano dispositivi poco identificati con il funzionamento affettivo, relazionale, psichico, delle nuove generazioni. Quando arriva l’adolescenza si rieditano slogan come “I no che aiutano a crescere”, quasi ci si trovasse di fronte a un soggetto vecchio stampo. In una società di iperideali, l’adolescente non è più trasgressivo. Le nuove generazioni sono appunto le generazioni narcisistiche e non più edipiche.
Oggi il modello educativo in adolescenza non può limitarsi, come credono molti genitori, al togliere i videogiochi o lo smartphone, ma deve puntare sulla capacità di proporre modelli a contrasto di questa sottocultura che vede nel sé e nell’io i destinatari di un obiettivo di successo da perseguire a tutti i costi. Oggi il desiderio più profondo dei ragazzi, ma sempre di più anche degli adulti, è quello di suscitare ammirazione. E se non c’è l’ammirazione c’è la vergogna: genitori e figli vivono come drammatica ogni sconfitta, la mancata popolarità o un insuccesso scolastico. È intollerabile l’idea di essere considerati brutti, insignificanti, privi di fascino. Ecco perché oggi la paura di essere inadeguati, di non essere all’altezza delle aspettative, di non essere desiderabili, è divenuta la causa più diffusa di sofferenza mentale in adolescenza. I ragazzi sono diventati dei narcisi che palpitano al ritmo di like e desiderando una sola cosa: essere visibili e apprezzati.
Ci sono diversi modi di guardare alla sofferenza degli adolescenti. Il modello che propone il Minotauro vede nel blocco della realizzazione dei compiti evolutivi fase-specifici il centro del disagio adolescenziale e propone un intervento clinico che coniuga teoria psicoanalitica e teoria evolutiva. Non si tratta, quindi, di una sofferenza dettata solo dal passato, come era nelle teorie del trauma, ma che deriva dal sentirsi bloccato rispetto alla realizzazione dei compiti evoluti. Oggi le sofferenze dei ragazzi riguardano prevalentemente problematiche inerenti all’insuccesso. Oggi i disagi attaccano prevalentemente il sé. Il conflitto è tra aspettative ideali molto elevate, che crollano con l’arrivo del corpo dell’adolescente, con il confronto con le proprie reali capacità. È un problema molto serio se un ragazzo si aspetta un corpo magnifico e poi gli arriva il corpo concreto col quale deve fare i conti. Occorre considerare e comprendere che le fattezze non si scelgono sui giornali, ma te le dà Dio, o madre natura. La depressione narcisistica nasce dal fatto che occorre affrontare delle quote di delusione riguardo a modelli di riferimento troppo alti.
SEPARAZIONE-INDIVIDUAZIONE
Per quanto riguarda il compito evolutivo inerente alla separazione-individuazione è necessario sottolineare come l’adolescente sia chiamato a rendersi progressivamente indipendente, a livello sia intellettuale che affettivo, dalle figure reali dei genitori e dalle loro rappresentazioni mentali idealizzate. Questo processo inevitabile e necessario è molto complesso, perché richiede di rinunciare ai vissuti di protezione e di idealizzazione del proprio sé, che la presenza onnipotente genitoriale dell’infanzia garantiva. Il processo di separazione dovrebbe portare verso una relazione con il proprio genitore più matura e realistica, maggiormente paritaria e reciproca, non più quella del genitore onnipresente e onnipotente, ma quella di una persona con le proprie risorse e fragilità. Si passa così dall’immagine di sé come bambino (onnipotente e perfetto, figlio ideale di genitori indispensabili) a nuovi oggetti (amici, amori, altri adulti di riferimento) che catalizzano gli investimenti e traghettano verso il mondo sociale.
Il processo di separazione interessa entrambi i versanti: anche i genitori sono chiamati a separarsi dai figli e accettare che essi diventino adulti ed emancipati. Questo compito non è affatto semplice e può generare sentimenti di ansia e ambivalenza: l’orgoglio per la crescita del figlio e delle sue abilità coesiste con le preoccupazioni per la sua raggiunta autonomia. Spesso è difficile e doloroso, inoltre, far fronte al sentimento di inutilità che può sopraggiungere quando i figli sembrano non avere più bisogno dei propri genitori.
Il processo si conclude con l’individuazione, ossia con l’acquisizione di una nuova identità (un mix di caratteristiche nuove e caratteristiche vecchie) e l’assunzione di un ruolo sociale. I cambiamenti culturali e la “narcisizzazione” del figlio rendono il compito evolutivo della separazione molto arduo. La ricerca di una giusta distanza emotiva e della separatezza psicologica necessaria al processo di soggettivazione risulta oggi problematica. Come conciliare il riconoscimento valoriale, la poca distanza emotiva e generazionale, l’investimento affettivo, le aspettative di successo e di realizzazione con le spinte all’autonomia, gli allontanamenti, i dolori propri dell’adolescenza?
Questi alcuni degli scenari che possono verificarsi in casi di scacco in questo compito evolutivo:
- Insuccesso nel processo di elaborazione della giusta vicinanza/distanza;
- Tristezza, isolamento, irritabilità;
- Crisi pantoclastiche;
- Fughe temporanee;
- Possibile fobia della scuola;
- Dedizione alla realtà virtuale;
- Difficoltà di apprendimento;
- Insuccesso scolastico;
- Manifestazioni di indole ossessiva.
MENTALIZZAZIONE DEL CORPO SESSUATO
Per quanto riguarda l’accettazione e la mentalizzazione del sé corporeo è ovvio che l’adolescente deve far suo un corpo diverso da quello del bambino che è stato. I cambiamenti innescati dalla pubertà (a partire dal menarca femminile e dalla comparsa del liquido seminale maschile, segnalata dalle polluzioni notturne, per poi proseguire con le successive significative trasformazioni corporee, tra cui lo sviluppo progressivo dello scheletro, dei caratteri sessuali secondari, la comparsa dei peli pubici e facciali) richiedono di costruire mentalmente delle rappresentazioni e di poter pensare ad una nuova immagine di sé. A partire da uno stato in qualche modo asessuato e onnipotente, si è chiamati ad elaborare un delicato passaggio che conduce alla condizione di maschio o femmina sessualmente maturi e potenzialmente generativi.
Questo è un processo che comprende anche l’accettazione di una nuova prospettiva: il corpo di cui si è dotati ha un limite temporale, morirà. In definitiva l’adolescente si ritrova con un corpo che è: sessuato, maschile o femminile; incompleto e complementare a quello di un altro (ed è per questo che deve piacere!); generativo, ma mortale; un corpo che passivizza, in quanto cambia in fretta e non lo si governa più. Un corpo che si fa fatica a riconoscere: dimensioni e masse muscolari nuove, voce, tessuti adiposi, seno, brufoli… Alla mentalizzazione del corpo corrisponde il desiderio di provvedere da soli al proprio corpo, alla sua alimentazione, all’abbigliamento, all’igiene. E spesso gli adolescenti manifestano “tolleranza zero” verso le incursioni e i tentativi di controllo dei genitori. Il giovane ha bisogno di passare tempo davanti allo specchio; di vestirsi alla moda, trovando allo stesso tempo il proprio stile. Tatuare e bucare il corpo, modificandone in modo più o meno indelebile le fattezze originarie attraverso disegni, scritte e simboli, sancisce in modo “epidermico” la separazione del sé infantile dalla propria madre. È necessario tenere presente che spesso gli adolescenti sono convinti di essere brutti. Essi sono esposti a valori della società alla quale cercano di affacciarsi e che li costringe a confrontarsi con dei modelli di bellezza, di fascino, di seduttività, di successo sociale. È la società del narcisismo: quella del successo a tutti i costi, della visibilità sociale e della popolarità. La società che all’etica ha sostituito l’estetica.
In caso di successo di questo evolutivo, l’adolescente:
- Mentalizza il corpo sessuato e generativo;
- Capisce cosa eccita e cosa disgusta;
- Porta l’esperienza di disgusto/eccitamento dentro la passione, l’eros, i sentimenti;
- Esplora l’orientamento sessuale;
- Sviluppa condotte di seduzione e corteggiamento;
- Modula il linguaggio del corpo;
- Raggiunge un equilibrio mente (e cognizione) /cuore (affetti) /corpo;
- Percepisce la mortalità del corpo.
In caso di scacco, invece, questi possono essere alcuni degli scenari possibili:
- Ritiro sociale finalizzato a far uscire dalla scena sociale il corpo;
- Tristezza, isolamento, irritabilità;
- Dedizione alla realtà virtuale;
- Insuccesso scolastico o iperinvestimento scolastico (solo la mente staccata dal corpo);
- Paura della bruttezza;
- Attacchi al corpo.
FORMAZIONE DI NUOVI VALORI
Per quanto riguarda la definizione-formazione di valori, l’adolescente deve conquistare una visione autonoma del mondo, di cosa è giusto e sbagliato. In adolescenza si è chiamati a compiere scelte e quindi a costruire e perfezionare i valori di riferimento che guidano le proprie azioni. A partire dalla necessità di definire i valori dell’identità di genere maschile o femminile, l’adolescente è chiamato ad individuare un proprio modello valoriale, un proprio senso etico, e a fare propri degli ideali strettamente personali. Questo percorso avviene attraverso l’incontro con altri soggetti, alternativi ai genitori e portatori di altri modelli di riferimento, dai quali si assorbe del “nuovo materiale valoriale” che contribuisce alla costruzione dei valori di riferimento. Valori che guideranno l’agire giornaliero dell’individuo adulto. Questi “altri” sono individuati sia tra gli amici (in quel percorso che inizia con il legame con l’amico o l’amica del cuore e che prosegue prima con la formazione del gruppo monosessuale e dopo con la formazione del gruppo eterosessuale, la “compagnia”) sia tra altri adulti di riferimento che si costituiscono come nuovi modelli di identificazione adolescenziale (insegnanti, operatori del privato sociale, parroci, allenatori sportivi, maestri di strumenti musicali, ecc.). Da questo momento l’adolescente è chiamato ad effettuare una sintesi di tutti i processi di identificazione e dei modelli imitativi con i quali entra in contatto, per giungere alla definizione del proprio unico e specifico modello valoriale di riferimento.
NASCITA SOCIALE
Questo ultimo compito evolutivo riguarda l’assunzione di un ruolo socialmente riconosciuto tra i coetanei e nel contesto allargato, che consente di progettare e di agire in direzione del proprio percorso futuro. Si tratta di una socializzazione secondaria (quella primaria è la socializzazione forzata del bambino che viene portato all’asilo nido o alla materna dove inizia ad avere a che fare con altri bambini): l’adolescente sviluppa il bisogno di appartenenza a una rete di relazioni con i coetanei e sceglie autonomamente per se stesso i suoi amici. La scuola costituisce spesso l’ambito centrale e decisivo di questo compito evolutivo.
Si dice che i ragazzi abbiano due famiglie: la famiglia naturale e quella che si sono costruiti con le loro mani, la famiglia sociale, il gruppo di amici, che ha un potere decisionale enormemente superiore a quello della famiglia. Il gruppo li accompagna, li sostiene, li consola, li tiene uniti, svolge una funzione di contenimento affettivo a volte anche superiore a quello che svolge la famiglia.
All’interno dei raggruppamenti giovanili si costruisce gran parte dell’identità adolescenziale. Il rapporto con i coetanei ha il ruolo di rendere pensabile il travaglio della crescita attraverso la condivisione e il senso di appartenenza. L’inserimento in un gruppo di pari età in adolescenza consente in generale di battere la noia, sconfiggere la solitudine, valorizzare la propria età e la fase di vita che si sta attraversando e acquisire una identità sociale.
Il gruppo adolescenziale, tuttavia, può rischiare di diventare rischioso o deviante. In effetti buona parte dei reati minorili non sono reati individuali ma di gruppo, e lo stesso vale per buona parte delle condotte pericolose e dei comportamenti a rischio. All’interno del gruppo di adolescenti la gestione dei comportamenti, le sfide, le decisioni, non sono individuali ma del gruppo, ed è la famiglia sociale a farsene carico: aumenta così l’eventualità che il gruppo scelga iniziative rischiose, trasgressive, stupefacenti. Poiché i genitori sono consapevoli del potere che il gruppo dei coetanei ha sulle scelte comportamentali del figlio, un conflitto piuttosto frequente sulla scena della famiglia riguarda la definizione dei tempi e il controllo da parte dei genitori su ciò che succede al figlio allorché è immerso emotivamente nella vita di gruppo.
Per quanto riguarda la nascita sociale, l’adolescente deve verificare la propria capacità di costruire nuovi legami. In adolescenza si è chiamati, in modo più significativo rispetto al passato, ad assumersi direttamente la responsabilità di un ruolo socialmente riconosciuto, sia tra i coetanei sia nel contesto allargato, che consenta di progettare e di agire in direzione della possibile realizzazione del proprio percorso futuro. Per quanto concerne l’assunzione di questo ruolo sociale riconosciuto, la scuola si è costituita come ambito centrale e decisivo. La scuola, infatti, è il luogo in cui si rappresenta la prima capacità dell’adolescente di gratificare le proprie esigenze di valorizzazione e successo. Anche se in modo ambivalente, è nei riguardi della scuola che l’adolescente esprime tratti importanti del processo di valorizzazione di sé come individuo sociale.
Nella realizzazione di questi compiti evolutivi, il ragazzo o la ragazza attiva intensi e profondi processi di simbolizzazione e di sviluppo della capacità riflessiva, che possono consentirgli di elaborare il lutto per la separazione dagli oggetti primari e dal sé onnipotente infantile, di costruire un’immagine mentale del nuovo corpo, di individuare i valori di genere ai quali affidare la regia del proprio percorso di crescita, di integrare i linguaggi della multiforme popolazione dei sé interiori in una sintesi socialmente presentabile.
ADOLESCENTI IN CRISI
In questa prospettiva, la crisi adolescenziale rappresenta un ritardo, un blocco, uno scacco nell’itinerario di realizzazione dei suddetti compiti evolutivi. Gli adolescenti in crisi sono, dunque, ragazzi e ragazze in stallo nella realizzazione del percorso di crescita, in difficoltà nella realizzazione dei compiti di sviluppo richiesti dal cambiamento adolescenziale. Questo è il modello di riferimento teorico e metodologico che guida gli interventi di consultazione e presa in carico degli adolescenti presso l’Istituto Minotauro, attraverso quella che loro definiscono “Teoria dei compiti evolutivi” e psicoterapia evolutiva.
PSICOTERAPIA EVOLUTIVA
La psicoterapia evolutiva è una concezione della psicoterapia in cui il cambiamento è concepito più come evoluzione che come cura, e si basa sui concetti di simbolizzazione, ruolo affettivo e crisi della cultura affettiva di fronte ai compiti evolutivi fase-specifici. Il presupposto, come già accennato, è che la consultazione avvenga in una situazione di scacco evolutivo e di crisi della cultura affettiva dominante, la quale si dimostra inadatta a sostenere la sopravvivenza e lo sviluppo del Sé e a promuovere investimenti oggettuali. Da un punto di vista evolutivo, infatti, al di là di quali siano le cause di un disturbo del figlio, è rilevante considerare come le competenze di ruolo genitoriale possano essere utilizzate positivamente nella gestione della sofferenza psichica del figlio. È necessario superare il rischio di colpevolizzazione dei familiari e coinvolgere attivamente i genitori nella consultazione.
In questa prospettiva l’intervento di consultazione prevede la promozione del cambiamento, non solo nel soggetto ma anche nel contesto di crescita dell’adolescente, e dunque dei ruoli materno, paterno e, eventualmente, anche di altri, come quello del docente. Si sostiene la possibilità che ad una rappresentazione più nitida di sé e delle proprie difficoltà evolutive si accompagni un cambiamento pratico.
L’obiettivo dell’intervento clinico è dunque quello di sostenere un riadattamento nel rapporto attualmente esistente tra compiti di sviluppo e contesto di crescita, al fine di favorire lo sblocco dello scacco e la ripresa evolutiva. In questo quadro, fondamentale è la risimbolizzazione, intesa come cambiamento della rappresentazione del soggetto in relazione all’oggetto e in funzione di un compito. In estrema sintesi, l’obiettivo prioritario della psicoterapia evolutiva è che l’adolescente e il suo contesto di crescita modifichino le rappresentazioni attualmente prevalenti, disfunzionali rispetto ai “lavori in corso” della crescita del ragazzo o della ragazza, in direzione di rappresentazioni di ruolo più adeguate a sostenere la realizzazione dei compiti evolutivi fase-specifici dell’adolescente.
Il tentativo di comprendere la natura della crisi transita, quindi, attraverso la messa a punto di un bilancio evolutivo che possa trasformare in pensieri e parole quello che l’adolescente da solo fatica a mentalizzare, promuovendo e incrementando la capacità attuale di produrre simboli e rappresentazioni di sé, del proprio corpo e della propria identità di genere. Effettuare un bilancio evolutivo con l’adolescente significa perlustrare le rappresentazioni che lui stesso ha delle varie aree della crescita, all’interno di una vicenda intrapsichica che mette al centro del lavoro clinico il vissuto soggettivo, ovvero il modo in cui il singolo adolescente si rappresenta in quella specifica area del percorso evolutivo e nelle relazioni più significative e coinvolgenti. Questo modello teorico e applicativo è dunque orientato dal tentativo di aiutare l’adolescente ad avere rappresentazioni più nitide di sé, ad intravedere il futuro della propria identità in costruzione, ad accompagnare lui, e possibilmente i suoi genitori, nell’avventura del mettersi in ascolto della specifica vocazione, del proprio personale, unico, talento, e nella pratica dell’allenamento che richiede.
La metodologia della consultazione ha, dunque, un focus privilegiato su quattro aspetti: la rappresentazione della crisi attuale del figlio; le reazioni specifiche del sé paterno e materno alla crisi; la descrizione del sé adolescenziale del figlio; le reazioni del sé paterno e materno all’adolescentizzazione del figlio.
ADOLESCENTE E LA MADRE
L’intervento terapeutico serve a riorganizzare il rapporto tra madre e figlio in modo che entrambi possano sentirsi all’interno di un legame che è, come tutti i legami umani, nel paradosso tra vicinanza e lontananza. Una volta che la madre riesce ad abbassare il conflitto e ad intercettare una giusta distanza, si tratta di riorganizzare la relazione con il figlio: questo è l’obiettivo principale del lavoro clinico con le madri degli adolescenti in crisi.
ADOLESCENTE E IL PADRE
Molto si è discusso negli ultimi anni sul tramonto della figura paterna. In realtà, non è del padre normativo e autoritario che si sente la mancanza, ma di un padre che aiuti l’acquisizione di una identità, attraverso la trasmissione di valore sociale. Nella presa in carico dell’adolescente in crisi è indispensabile il coinvolgimento del padre. E con entrambi non si punta assolutamente alla ricerca delle cause, che guarderebbe al passato. Con entrambi si punta a passare dalla descrizione dei fatti ai significati e alle motivazioni sottostanti. A contare sono il presente, il futuro, il progetto di crescita e l’adempimento dei compiti di sviluppo. Nelle crisi adolescenziali, spesso, i genitori non sono le cause del problema, ma gli interlocutori e i destinatari della crisi. È in come reagiranno alla crisi il discrimine sul fatto di poter diventare ostacoli o risorse alla ripresa del percorso di crescita. Con le madri e i padri è necessario, dunque, fare un lavoro di esplicitazione dei loro specifici compiti. Non sono solo i ragazzi a dover affrontare degli specifici compiti evolutivi. Anche i genitori hanno i loro compiti, che devono essere svolti bene se non si vuole ostacolare il processo di separazione-individuazione del figlio. Nello specifico, i genitori devono: proteggere il figlio; trasmettergli conoscenze e atteggiamenti necessari a renderlo un adulto responsabile; trasmettere valori; insegnargli a saper stare da solo; sostenere eventualità e situazioni in cui l’adolescente lo “abbandoni”, lo critichi, lo attacchi. Bisogna aiutare il genitore a comprendere che spesso, nonostante le migliori intenzioni, il suo comportamento non aiuta la crescita del figlio perché non è in sintonia con i bisogni specifici di quella particolare fase della vita del ragazzo. Attraverso il sostegno al ruolo affettivo materno e a quello paterno si ottengono dei miglioramenti concreti nel loro modo di relazionarsi con il figlio. E di conseguenza un miglioramento del figlio stesso.
IL SUICIDIO IN ADOLESCENZA
La morte volontaria di un adolescente è un avvenimento doloroso, un oltraggio alla vita che non è mai possibile comprendere pienamente. Tuttavia, l’esperienza clinica con gli adolescenti e i loro genitori ha permesso di scoprire che talvolta la scelta di morire nasce e si sviluppa nella mente dei ragazzi come una possibile soluzione. Il pervasivo sentimento di vergogna, la percezione di trovarsi di fronte ad un ostacolo insormontabile, l’impossibilità di rappresentarsi un futuro possibile spingono a ricercare strade per lenire un dolore travolgente, e l’azione violenta della sparizione è purtroppo una di quelle percorribili.
Gli adolescenti odierni sono abitati da sofferenze di stampo narcisistico, esposti al rischio di sentirsi sconfitti nella battaglia tra gli ideali che vorrebbero raggiungere e una realtà quotidiana difficile da conquistare, tra la pretesa di riconoscimento e quello che gli altri realisticamente offrono come sguardo di ritorno. La sofferenza adolescenziale è oggi abitata prevalentemente da sentimenti di vergogna, da sensazioni di inadeguatezza e di impresentabilità, determinati da un Ideale dell’io particolarmente esigente. Meno conflitto e trasgressione rispetto al passato, più attacchi al corpo e al Sé nascente. Meno disagi e patologie della colpa, più forme manifeste di vergogna.
Il ruolo dello psicologo e dello psicoterapeuta è quello di aiutare l’adolescente e i suoi genitori a comprendere il significato profondo della crisi evolutiva, di saper cogliere nel sintomo il segnale del disagio dell’adolescente e, contemporaneamente, il suo disperato tentativo di provare a risolvere un conflitto psichico molto doloroso.
Come già detto, i disagi e le sofferenze derivano da una società iperideale e riguardano sempre di più l’attacco al corpo: il disturbo della condotta alimentare, il ritiro sociale, il self cutting, il suicidio. Cosa spinge un adolescente, in una fase del ciclo di vita ricca di potenzialità, a pensare alla propria morte, a idearla e a individuare dei modi per realizzare il progetto e talvolta riuscirci?
È utile fare una prima e importante distinzione tra suicidio, tentato suicidio ed equivalente suicidale.
Il suicidio, razionale o impulsivo, rappresenta il portare a compimento il desiderio, la volontà, di darsi la morte.
Per tentato suicidio, invece, si intende un comportamento intrapreso con un’aspettativa di morire. Si tratta di un suicidio mancato, non giunto a compimento solo per cause fortuite: scarsa pianificazione, mancata conoscenza della non letalità del metodo scelto, intervento casuale da parte di altre persone.
L’equivalente suicidale, invece, è quella categoria in cui rientrano tutte quelle condotte che espongono al rischio di morte in presenza di pensieri suicidali. Tra questi possiamo menzionare la guida ad alta velocità, l’eccessiva assunzione di sostanze stupefacenti, la fuga da casa. Questi sono solo alcuni esempi che spesso rischiano di essere derubricati a bravata giovanile, ma che in alcune situazioni celano una profonda sofferenza mortifera.
Questa distinzione impone di riflettere, e di affrontare ogni tentato suicidio e gli equivalenti suicidali con la massima cautela. Molto spesso la reazione degli adulti è quella di minimizzare la questione riducendo il gesto suicidale ad un semplice atto dimostrativo, fatto per ricevere nuove ed ulteriori attenzioni dal contesto di riferimento. Derubricare il tutto ad atto dimostrativo adolescenziale, o pensare che chi sopravvive al tentativo di suicidio in realtà non volesse realmente morire, rappresentano gravi sottovalutazioni, che rischiano di non accogliere il disperato tentativo di dar voce ad un dolore muto, profondo, nonché di favorire ulteriori tentativi. Il principale fattore di rischio di un suicidio è l’averlo già tentato in precedenza.
La diceria secondo cui chi dice che vuole morire non lo farà deve essere smentita una volta per tutte: in qualche caso, chi parla di suicidio ha intenzione di commetterlo davvero.
Il genitore deve avere il coraggio di chiedere al figlio se è triste, se ha un problema. E ascoltarlo attentamente, ma senza angoscia. Deve parlare del fatto che il fallimento fa parte della crescita e che c’è sempre una via d’uscita. Deve far capire al figlio che non c’è bisogno di mentire e che, in ogni situazione, il genitore sarà lì. Un adulto autorevole, che continuerà a dargli una mano.
Ogni gesto suicidale deve essere preso sul serio, non minimizzato. La banalizzazione e la sdrammatizzazione immediata devono essere definitivamente prescritte, abolite. Comprendere il livello di urgenza e di rischio in un ragazzo con pensieri di morte è clinicamente molto importante.
È possibile definire un continuum di gravità crescente che guidi la lettura del processo psichico e che segnali un’eventuale emergenza.
Il continuum va dai pensieri sulla morte alle idee suicide, per poi arrivare alle intenzioni suicide e, infine, al progetto di suicidio. Quest’ultimo è caratterizzato dalla scelta delle modalità e dall’impegno nella preparazione del gesto: il ragazzo si procura gli strumenti, sceglie il luogo e la data, scrive messaggi o lettere da lasciare a persone significative.
L’intenzione e il gesto suicidale in adolescenza quasi mai sono l’espressione sintomatica di una grave malattia mentale. Rappresentano piuttosto l’espressione di un grave scacco nel processo evolutivo, governato dalla fragilità narcisistica che espone il soggetto alla sperimentazione di una profonda sofferenza, capace di intaccare drammaticamente il senso del sé.
La sensazione di profonda inadeguatezza del sé porta a costruire maschere e a falsificare gli aspetti più autentici della propria identità, allo scopo di intercettare ciò che fa piacere all’altro, ciò che coincide con le aspettative dei diversi interlocutori, ciò che garantisce visibilità e successo. Le riflessioni e le ipotesi circa la propria morte diventano una sorta di rifugio, un’ancora di salvezza alla quale aggrapparsi per trovare consolazione e una possibile via di fuga dal dolore inarrestabile e pervasivo: è l’idea della morte come soluzione al dolore della vergogna e della mortificazione.
IL CASO DI GIADA
Giada si è trovata con le spalle al muro: ai genitori, agli amici, al fidanzato aveva detto di avere completato gli esami per la laurea in Scienze Naturali. Martedì 10 aprile 2018, da Imola, la mamma, il papà e il compagno sono arrivati all’Università Federico II di Napoli, pensando di assistere alla discussione della tesi.
Il suo nome, però, non compariva nell’elenco dei laureandi: Giada non aveva ancora finito il percorso di studi, ma non aveva avuto il coraggio di dire a nessuno la verità.
È salita sul tetto dell’ateneo e si è uccisa, lasciandosi cadere nel vuoto.
Perché è così difficile uscire dalla spirale delle bugie? Perché arrivare a togliersi la vita?
Rispetto al passato è cambiato il significato che ha la bugia. Un tempo, quando fra genitori e figli c’era una distanza maggiore, le bugie venivano dette dai ragazzi per il timore che si aveva nei confronti degli adulti. Vigeva la “legge del padre”, a cui si doveva obbedire. Ora quel modello è cambiato, e le famiglie sono più affettive: i genitori aiutano i figli a raggiungere i loro obiettivi.
Oggi i ragazzi mentono per non deludere. Non riescono ad ammettere il fallimento non per paura della reazione rabbiosa o della sanzione di un genitore, non perché hanno paura del padre, ma perché non vogliono deluderlo.
E si può arrivare ad uccidersi? All’inizio si crede di poter “recuperare”. Ma poi le bugie e le omissioni si sommano, e non si riesce più a dominare la situazione. Si arriva di fronte a ostacoli insormontabili. Si vuole scomparire dalle scene, perché quello che sta succedendo è intollerabile.
Perché spesso i ragazzi non parlano dei loro fallimenti nemmeno con gli amici? Oggi lo sguardo di ritorno degli altri (anche dei coetanei o del fidanzato) è considerato molto importante. Sentire che si ha valore nella mente degli altri è diventato fondamentale, e l’idea della popolarità è determinata anche dal potere orientativo dei coetanei. Che magari ce l’hanno fatta, nel frattempo. Così ci si vergogna ancora di più del loro giudizio.
Che cosa possono fare gli adulti per aiutare i ragazzi? È necessario aiutarli a tollerare la delusione, il sentimento di vergogna e di inadeguatezza, in un contesto sociale che non tollera l’insuccesso e il dolore.
I genitori devono saper testimoniare il fatto che il fallimento è inevitabile, e che può essere la base per costruire altri successi o nuovi modelli di realizzazione di sé.