FISIOLOGIA DELLA VENDETTA
Diversamente da quello che ci dice il senso comune, la vendetta non ristabilisce mai l’equilibrio: questo è il cosiddetto “paradosso della vendetta”.
L’esito più frequente della vendetta, infatti, è un’escalation di violenza.
Perché, non solo la vendetta non permette di placare il risentimento, ma spesso è addirittura vero il contrario.
Vendicarsi, infatti, non sempre dà sollievo. Anzi, molto spesso amplifica i sentimenti negativi, favorendo alla lunga disturbi ansiosi e depressivi.
Spesso le vittime hanno la tendenza ad ingigantire l’entità o la volontarietà del torto. E ciò porta a far sì che la vendetta raramente sia proporzionata all’ingiustizia subìta, favorendo così una progressione di ritorsioni.
La vendetta ha quasi sempre un effetto boomerang.
È per questo che Confucio diceva:
“Prima di imbarcarti per un viaggio di vendetta, scava due tombe”.
I ricercatori concordano con Gesù nel ritenere che il percorso del perdono sia costituito da due aspetti diversi:
- abbandonare il rancore e il desiderio di vendetta;
- coltivare sentimenti di benevolenza e compassione nei confronti di chi ci ha fatto un danno, attraverso una visione delle cose più ampia.
Le parole rivolte a Dio – “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” – durante l’agonia sulla croce, sono quelle che sintetizzano al meglio il percorso di una Terapia del perdono, legato a problematiche familiari, ma non solo.
Pensando alle tante, diverse, difficoltà che la persona affronta nella propria famiglia, e in particolare con i propri genitori, uno degli obiettivi della terapia del perdono è quello di allargare le prospettive, di ragionare, provando a guardare la storia dal punto di vista del persecutore. Il tutto, liberandosi dalla convinzione che il proprio punto di vista, di vittima, sia l’unica lettura vera, oggettiva, della realtà.
PERDONO: PERCORSO COMPLESSO
Il perdono è un processo faticoso e difficile, secondo alcuni simile all’elaborazione di un lutto.
Perdonare è sempre una scelta personale, mai un dovere o un obbligo.
Ma come si fa a perdonare?
È necessario passare attraverso varie fasi, non per forza in modo lineare. In questo cammino possono esserci momenti di regressione e vere e proprie cadute.
–Riconoscere l’offesa.
Perdonare non significa dimenticare o fare finta di nulla. E soprattutto non significa accettare che una persona possa continuare a farci del male.
Il primo passaggio, fondamentale, è quindi riconoscere di aver subìto un’ingiustizia.
-Confrontarsi con le emozioni.
Subire un torto ci fa sentire feriti. Bisogna dare spazio alla rabbia, al risentimento, alla tristezza, alla voglia di rivalsa, talvolta anche alla vergogna e al senso di umiliazione. Si soffre sia per il danno concreto che abbiamo subìto, sia per i sentimenti che proviamo verso chi ha perpetrato l’offesa.
-Divenire consapevoli delle energie psichiche investite.
Il ricordo del torto viene alimentato dalla “ruminazione rabbiosa”: pensiamo continuamente a cosa è accaduto, perché l’altro ha fatto ciò che ha fatto, ha detto ciò che ha detto, perché non abbiamo reagito in un certo modo, e così via. È come essere bloccati in un circolo vizioso di pensieri negativi, che non porta mai a una risoluzione ma, al contrario, produce un aumento della tristezza e della rabbia. In questo passaggio si realizza che le strategie usate per far fronte all’offesa non solo non funzionano, ma hanno o possono avere ripercussioni sulla vita sociale e lavorativa, disturbando la qualità del sonno e favorendo disturbi mentali e fisici.
-Decidere di perdonare.
Una volta compreso che l’odio e la voglia di vendetta, ma anche l’evitamento e la fuga, non risolvono il problema, tendono anzi a fare stare sempre più male, si può cominciare a considerare il perdono come possibile via d’uscita dalla sofferenza.
-Ridefinire l’immagine dell’offensore (“reframing”).
In questo passaggio, uno dei più difficili, si cerca di assumere il punto di vista di chi ci ha recato il danno, considerando la sua storia personale e il suo intrinseco valore umano, provando empatia e comprensione.
-Comprendere fino a fondo il perdono.
Il processo termina quando diventiamo consapevoli che tutti abbiamo avuto bisogno del perdono di qualcun altro nel passato. Perdonare, quindi, ci riconcilia con il mondo e con la vita, ci permette di andare oltre e perseguire nuovi obiettivi. All’idea di sé come vittima a cui accadono cose brutte si sostituisce un’idea attiva, di chi sa andare oltre, di colui a cui possono accadere cose belle.
Se continuiamo a guardare la realtà solo dal nostro punto di vista, per quello che è accaduto secondo noi, continuiamo a provare rabbia e rancore.
Con una ristrutturazione della visione, allargando il focus, si possono addirittura provare gratitudine e gioia.
Del resto, è proprio vero che la vita è composta solo in piccola percentuale da ciò che ci accade, mentre è altissima l’incidenza del modo in cui accogliamo quello che ci accade, del come reagiamo alla realtà.
Con un occhio esterno, che ci aiuta a ristrutturare la visione della realtà, è possibile decidere come reagire di fronte al proprio dolore. Il dolore è inevitabile – dice il Buddha – ma la sofferenza no. È il nostro modo di reagire alla realtà che ci fa soffrire.
Dunque, aveva proprio ragione il Piccolo principe quando ci diceva che non si vede bene che con il cuore!
La pace interiore è strettamente connessa al processo di perdono.
Se il nostro sguardo non va oltre la lunga lista di rimpianti per ciò che non abbiamo avuto – e che nessuno mai ci potrà ridare – la nostra capacità di comprensione si arresta davanti a tutti quei perché (perché tutto questo disinteresse? Perché agli altri sì, e a noi no?), a cui non riusciamo proprio a darci una risposta.
Il perdono è legato, per me, al lasciar andare la propria reazione difensiva al passato, a quel triste passato. E all’aprirsi di nuovo alla fiducia. Si deve smettere di chiedersi il perché e ci si deve focalizzare sul come. Sì, sul come si possa iniziare a vivere in modo nuovo, in modo sereno.
Perdonare significa riuscire a superare l’identificazione con la vittima e assumere il timone della propria vita.
È necessaria questa dis-identificazione da se stessi, o meglio da ciò che ci raccontiamo di noi. E lo si può fare con il perdono. Che è un atto di amore verso se stessi. E che prevede il grande passaggio di riconsiderare le proprie memorie emotive e i propri copioni in modo che le ferite non possano più arrecare danno.
Le ferite non superate, del resto, diventano organizzatrici potenti dell’identità, vengono messe in gioco nelle relazioni in modo da sancire dei ruoli e dei giochi transazionali ben precisi, come ci diceva Eric Berne.